A preoccupare nella transizione ecologica non sono la tecnologia e i mercati che corrono come un treno nella direzione giusta verso il futuro. È la politica che invece di eliminare lacci e lacciuoli si mette spesso di traverso. L’agenzia mondiale delle rinnovabili (IRENA) calcola che più del 90% di tutta la nuova capacità di produzione di energia installata (nuovi impianti) viene da fonti rinnovabili. Il motivo è semplice. Il fotovoltaico è la fonte oggi meno cara per produrre energia ed ha il vantaggio della sua estrema modularità. Dal pannello del balcone alla grande centrale offre una pluralità di soluzioni che hanno reso due milioni di italiani (per fare l’esempio del nostro paese) produttori di energia. E il cambiamento delle fonti di energia è la chiave del contrasto al riscaldamento globale perché tre quarti delle emissioni dipendono da questo. L’indirizzo profetico della Laudato Si’ nel 2015 (uscire progressivamente ma senza indugi dalle fonti fossili) è pienamente in via di svolgimento in tutti i continenti, inclusi gli Stati Uniti, dove il passo indietro giurassico di Trump ha meno impatto di quello che si crede visto che Texas e California sono all’avanguardia nel cambiamento delle fonti di energia.
Dalla COP30 possiamo solo aspettarci un nuovo appello all’urgenza del problema, qualche pronunciamento di principio nobile ma non certo decisioni operative. Le decisioni si prendono sul campo e dipendono dall’intreccio di progresso tecnologico, dinamiche di mercato e (appunto) ostacoli o stimoli della politica.
In tempi di legge di bilancio nei quali la coperta delle risorse pubbliche appare come sempre molto corta è importante sottolineare che la transizione non chiede grandi finanziamenti ma solo regole migliori. E soprattutto che il bagno di sangue sta nel ritardarla, non nel farla. Se incontrate un negazionista non provate a convincerlo del nesso tra emissioni e riscaldamento globale. Spiegategli che la transizione va fatta per motivi geopolitici. L’Italia è uno dei paesi UE con il più grande tasso di dipendenza energetica da fonti di energia di cui non controlliamo i prezzi e che hanno causato le due più grandi disgrazie economiche degli ultimi cinquant’anni: la crisi di fine anni 70 quando il prezzo del petrolio quadruplicò e quella dei due anni post invasione dell’Ucraina quando ad esplodere fu il prezzo del gas. In entrambi i casi dinamiche inflattive a due cifre hanno impoverito il paese.
Per quale masochistico motivo, ora che la tecnologia e le dinamiche di mercato ce lo consentono, ci vantiamo di acquistare gas liquido dagli Stati Uniti, sostituiamo la dipendenza dalla Russia con quella dell’Algeria e non corriamo a grandi passi verso l’indipendenza energetica riducendo costi e bollette di famiglie e imprese? Alla politica chiediamo poche mosse efficaci. Potenziare la commissione di Valutazione d’Impatto Ambientale, un collo di bottiglia dove lievitano i tempi di approvazione dei 300GW di progetti di nuovi impianti (ne bastano 10 all’anno per i nostri obiettivi di decarbonizzazione). Il net metering, sconto immediato in bolletta per l’energia autoprodotta e autoconsumata dalle comunità energetiche e il loro inserimento nella lista degli attori del mercato della capacità che entrano in campo vendendo energia alla rete quando ci sono picchi di domanda non coperti dall’offerta. Infine un sostegno deciso con un maggiore plafond ai fondi dell’energy release che anticipano lo sconto in bolletta ad imprese che investono per aumentare la loro autonomia energetica con loro impianti di produzione da rinnovabili. Un capitolo a parte sono gli incentivi all’efficientamento degli edifici che devono superare i tre difetti del 110. Percentuale di credito d’imposta inferiore al 100 per cento per evitare collusione e costi gonfiati, tetto alle risorse messe a disposizione e possibilità di cedere una sola volta il credito d’imposta.
“La transizione avrà successo quando sarà socialmente desiderabile”. È compito della politica con iniziative e con una corretta comunicazione renderla tale e spiegarla agli italiani.




