Il profilo prevalente dell’attuale centrosinistra in Italia si può definire come massimalista e progressista: sono tratti che danno il senso della forte attesa di cambiamento ma che rischiano, se non bilanciati, di essere inefficaci.
Intendo con ciò anzitutto dire che serve sicuramente una certa radicalità nelle proposte politiche, ma al contempo anche un intelligente approccio gradualista. I cambiamenti, infatti, trovano sempre ostacoli e quindi vanno accompagnati e fatti digerire, pena il rigetto. Se poi sono troppi, contemporanei e vissuti come eterodiretti, chi deve sopportarli proverà a opporsi trovando rappresentanza nelle destre, le quali promettono protezione dalle fatiche della novità. Ci si dovrebbe così ogni volta mostrare consapevoli dell’inevitabile percorso a tappe nel loro raggiungimento, soprattutto accompagnando le persone, le famiglie e le comunità in questi processi. D’altronde, il gradualismo in politica ha una lunga storia collegata a varie visioni liberali, socialdemocratiche, popolari: esse non trascurano il raggiungimento di obiettivi parziali, purché finalizzati al raggiungimento dello scopo ultimo.
Un esempio può aiutare a chiarire. La transizione verso l’auto elettrica ha indicato un termine oltre il quale non potranno essere più vendute auto endotermiche. Questa decisione, discutibile ma certo coerente con l’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale, sta portando tuttavia a un diffuso rigetto, anche per l’assenza di una vera politica gradualista. Infatti, i sindaci dei Comuni delle aree interne o montane ci ricordano che oggi devono già autotassarsi per poter tenere ancora aperto un distributore di benzina. Non ci sono poi grandi interessi da parte delle società elettriche a collocare in aree marginali le colonnine di ricarica. Così, mentre le destre alimentano sotto traccia il rifiuto verso la transizione energetica, i partiti di opposizione non sembrano aver compreso (almeno nel modo di comunicare) le fatiche di chi viaggia per lavoro con una vecchia utilitaria e non può comprarsi un’auto elettrica, perché costa uno sproposito o perché non ci sono fonti di ricarica vicine.
Un altro esempio recente sull’opportunità di un approccio non massimalista potrebbe riferirsi alla costruzione della difesa comune europea. Sicuramente l’obiettivo finale è quello di un esercito comune e integrato, ma per arrivarci servono tempo, decisioni politiche degli Stati, Trattati, eccetera; è quindi ragionevole finanziare e sostenere passaggi intermedi, senza pretendere tutto e subito. E ancora: penso a chi, qualche anno fa, voleva solo lo ius soli, senza tener conto che un primo buon passo poteva essere lo ius culturae. Con il risultato che finora non sono stati fatti passi avanti per concedere la cittadinanza ai minori stranieri. E potrei continuare a lungo con gli esempi.
Quanto invece a un certo progressismo, c’è motivo di osservare come esso rischi di snobbare le tradizioni, quasi a considerarle residui di un passato da superare. L’equivoco di fondo sta nel confonderle con il tradizionalismo, che si connota per l’autoritarismo, il maschilismo, il nazionalismo, l’uso strumentale dei simboli religiosi, il familismo amorale e ogni altro orientamento tutelato dai conservatori.
Altra cosa sono invece i luoghi, i tempi e i modi con cui le persone nascono e crescono, danno continuità a una storia, maturano la personalità e il senso di appartenenza, trovano reciproco sostegno nella vita quotidiana, garantiscono il mutuo aiuto, saldano relazioni tra le generazioni. Ricordare le nostre origini, valorizzare i costumi e il folklore locale, favorire la natalità e la genitorialità, tutelare il valore anche civile del sacro e delle religioni, coltivare il senso patriottico, apprezzare la stabilità dei legami affettivi, proteggere i genitori anziani: questi e altri sentimenti e pratiche di vita, che possiamo chiamare buone tradizioni, contribuiscono al bene comune, pur essendo sfere che hanno una loro autonomia.
La difficoltà di una certa sinistra a valorizzare queste radici, se non almeno a riconoscerle, si spiega forse con una certa torsione individualistica che recentemente la pervade. Oppure, il giusto rispetto per la loro autonomia finisce per ritenere inopportuno persino evocarle. Invece l’agire politico e la sua comunicazione non possono risolversi nella sola dimensione pubblicistica o economicistica, quasi che le altre sfere di vita debbano farcela da loro.
Questa esigenza di modificare la postura dei progressisti sta anche nell’evidenza: le povertà non sono solo materiali. Si è infatti poveri anche quando non si può contare su reti familiari, parentali o comunitarie che garantiscano reciprocità, protezione e convivialità; quando si perdono le tradizioni, i riti, le storie del popolo di cui si è fatto parte, recidendo così i legami col passato; quando si è incapaci di alzare gli occhi verso il cielo e riconoscere la fragilità del genere umano. Le tradizioni – se interpretate in chiave di fraternità e non come esercizio di potere – sono invece decisive nel combattere queste povertà e nell’evitare derive individualistiche.
In conclusione, le massime e progressive sorti di cui farsi interpreti sono sovente lungimiranti, ma occorre meglio accompagnare le fatiche e i tempi necessari per raggiungerle. Inoltre, esse non possono finire per logorare il già sottile filo della continuità tra passato, presente e futuro, ma dovrebbero garantire coesistenza tra tradizione e avanzamento. Insomma, per non essere velleitari servirebbe modificare il profilo massimalista e progressista, valorizzando il gradualismo (nel metodo) e le buone tradizioni (nel merito), fino a considerarli tratti salienti.
(Il presente articolo è stato già pubblicato, in versione diversa, su Domani).




