Stanotte il Consiglio europeo ha prodotto qualcosa che, a Bruxelles, viene ormai scambiato per un successo: soldi. Novanta miliardi per l’Ucraina, raccolti con debito comune. Obiettivo minimo centrato. Tutto il resto – visione, ambizione, geopolitica – rimandato a data da destinarsi. Questo passa il nostro mediocre convento.
Sia chiaro: l’operazione non è banale. Berlino, e con lei altri governi frugali, non volevano eurobond. Un anno fa si erano opposti ad una proposta da 40 miliardi, ridotti poi a 4. Oggi ne decidono ben 90, garantiti dal Bilancio europeo. Non volevano garanzie europee, ma solo nazionali e bilaterali: ottengono invece un prestito a tasso zero garantito dal bilancio UE, da rimborsare con le future riparazioni russe. Un compromesso ingegnoso. Le casse esangui di Kiev, soprattutto dopo che gli USA hanno azzerato ogni aiuto, sono salve, per due anni e permettono all’Ucraina di non tracollare già a gennaio. Un vero capolavoro diplomatico, per nulla scontato. Bravo Antonio Costa: poteva andare molto peggio.
Ma è proprio qui il punto. L’Europa continua a brillare nell’arte del compromesso tattico e a fallire nella politica. I soldi arrivano, il messaggio no. L’occasione di usare il debito comune come vero strumento geopolitico – legandolo apertamente agli asset russi congelati (230 miliardi) , trasformandolo in pressione su Mosca (quei soldi non sono più nella disponibilità della tua Banca centrale per garantire le tue finanze ormai dissanguate dall’economia bellica che assorbe il 50% del bilancio) e segnale inequivocabile verso Washington (quei soldi non ci sono più per il promesso Fondo di investimenti USA nella ricostruzione Ucraina, da cui trarne il 50% di profitti) – è stata persa. Troppo rischio, troppa paura, troppe capitali prigioniere del cabotaggio nazionale. E, come ha rivelato lo stesso Zelenski nei colloqui privati, se l’Europa, che è la sola a restare a fianco di Kiev, non riesce ad assumersi un rischio finanziario collettivo pur minimo sugli asset congelati, ma la massimo parla di suddividerlo sugli Stati membri con rischio di lasciare il Belgio col cerino in mano, come fidarsi delle più impegnative e per ora vaghe promesse garanzie di sicurezza militare simili all’art 5 NATO, che sono una delle componenti chiave del negoziato per fermare la guerra?
E tutto questo in pubblico, sotto gli occhi divertiti dei tre predatori globali: Putin, Trump, Xi.
La soluzione scelta – cooperazione rafforzata a 24, con Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca fuori dal perimetro finanziario (non si oppongono, ma usano la cosiddetta clausola opting-out) – conferma una verità scomoda: quando c’è volontà politica, l’unanimità si aggira persino in materia di bilancio. Quando non c’è, diventa un alibi perfetto. L’Unione funziona solo quando è con le spalle al muro. Sempre troppo tardi, sempre troppo poco.
E mentre sull’Ucraina si chiude a fatica, sul Mercosur si rinvia. Ancora. Trent’anni di negoziato e l’UE non riesce a firmare per paura di qualche protesta agricola e di qualche promessa troppo tardiva, non ancora decisa dai colegislatori e negoziata con i partner, di ulteriori salvaguardie per i prodotti alimentari europei. Lula minaccia di sfilarsi se non si firma entro fine anno e l’Europa risponde con un “forse a gennaio”. Un capolavoro di credibilità internazionale, soprattutto mentre Stati Uniti e Cina ridisegnano le regole del commercio globale, ci massacrano con dazi e concorrenza sleale. Ma noi rischiamo di far saltare un mercato di 700 milioni di consumatori per le nostre imprese e confermare al mondo che l’UE sul commercio aperto continua ad essere un partner credibile e espansivo.
Il bilancio finale è questo: l’UE salva la faccia, ma mostra la sua impotenza strutturale. Riesce a emettere debito comune solo in emergenza, rinvia le scelte strategiche, parla di sovranità strategica in un mondo di predatori, ma rifugge le dure responsabilità della geopolitica odierna, usando la tattica per comporre le baruffe tra piccoli interessi delle capitali. Alla lunga, forse, vinceremo ancora noi europei. Ma quanto tempo possiamo ancora permetterci di perdere, parafrasando Draghi, prima che gli altri decidano tutto per noi?
Luca Jahier
Già Presidente del CESE
[19 dicembre 2025]




